Pochi giorni fa, un amico appassionato di running mi ha proposto di fare un allenamento assieme. Quella sera, tuttavia, mi ero già programmato per andare al cinema: gli ho quindi risposto «mi dispiace, non posso», proponendogli di rimandare di lì a breve.
Poco dopo ho riflettuto: davvero non posso? In fondo, non ero obbligato da nessuno ad andare al cinema: se lo avessi voluto, avrei potuto tranquillamente modificare i miei programmi. Il mio «non posso» poteva quindi meglio tradursi come un «non voglio»: «non voglio rimandare la visione di quel film», «oggi non voglio andare a correre», ecc.
Pensiamoci: quante volte ci capita di dire «non posso» o «non riesco» quando in realtà siamo di fronte ad una scelta e non ad una oggettiva impossibilità?
Anche in ambito professionale: quanti dei «non posso» che diciamo, e che ci vengono detti, sono reali?
Scavando a fondo e con distacco, potremmo accorgerci che alcuni di questi «non posso» segnano il confine di una zona di comfort. Potremmo accorgerci che sono una comoda via di fuga per evitare difficoltà, o cose che semplicemente non ci piacciono, ma che in realtà – pur con fatica e dispendio di energie – siamo perfettamente in grado di fare e di gestire.
Ognuno di questi «non posso» è quindi un limite, un freno, una zavorra che ci rallenta e che ci trattiene dal metterci in gioco e far accadere le cose. Quando è così, questo può sicuramente precluderci preziose opportunità.